lunedì 24 ottobre 2011

IL SAPORE DEL PASSATO IN UN TAZZA DI Tè



I nostri sensi giocano un ruolo importante. Non è solo questione di vedere, toccare, ascoltare, gustare e annusare, tutte funzioni peraltro di vitale importanza, ma il fatto è che con i nostri sensi viviamo non solo in senso strettamente biologico, ma con essi ci emozioniamo. Diciamo quasi che ogni nostro senso è un'emozione. Forse ce ne accorgiamo quando guardiamo qualcosa di molto gradevole, o di particolarmente sconvolgente. Il nostro vivere si potenzia infinitamente e noi ci emozioniamo, non importa che questa emozione faccia scaturire sensazioni positive o negative.

A questo punto quindi, siamo certi che i nostri occhi non servono solo per vedere quando attraversare la strada così come le nostre mani non sono fatte solo per una penna o per le mille faccende della giornata. Occhi, mani, naso, lingua, orecchi sono molto di più di semplici parti del nostro corpo. Di vitale importanza, così perfette e legate fra di loro, certo non potrebbero fare tutto da sole se non le guidasse lui: il cervello. Ma a volte anche il cervello si prende una pausa e oltre agli input precisi con cui comunica alle mani di muoversi o alla retina di ricevere le immagini che ci circondano, può lasciare spazio ad emozionanti scoperte …

E' un po' quello che è accaduto a Marcel, in quella sua ricerca del tempo perduto. Quella scoperta gustosa, o meglio quel ritrovamento così intimo e gioioso ha preso nuovamente vita nell'esperienza e poi su una delle pagine più famose della storia della letteratura europea. Stiamo parlando del celebre racconto della maddalena, di cui Proust racconta nel primo libro de “La Ricerca del tempo perduto”. Come tutti saprete, quel pomeriggio Marcel si era ritrovato davanti una tazza di tè, privo di qualsiasi speranza per il domani, anzi appesantito, proprio come il grigiore della giornata appena trascorsa. Nessuna prospettiva insomma! Sembra quasi di rivedere un po' tutti noi in questo personaggio scolorito e annoiato, a volte capita!

Eppure, in quel monotono grigiore, accade l'imprevisto. Non appena la fragranza della maddalena intrisa dell'aroma di tè entra in contatto con i sensi di Marcel, scatta qualcosa. E' il gusto del tè? Oppure quello della maddalena a generare nel narratore quel senso di piacere ancora del tutto immotivato?

Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa.

Quell'attimo delizioso, ancora del tutto privo di un fondamento, basta a Marcel per dissipare la nebbia della giornata, il presente pian piano perde i suoi contorni per lasciare spazio a una nuova sensazione, piena di calore e del tutto gioiosa. E' il momento sovrano in cui la mente, o meglio il cervello ha staccato la spina. Proprio quando fanno da padrone le emozioni e i sensi ci riconducono alle esperienze più serene. Potrebbe bastare soltanto questo a consolare la giornata dello scrittore, ma ora a quella mente che si è lasciata invadere dalle sensazioni, tocca districare i fili della memoria. Marcel si sforza, in effetti sa che quel piacere non può essere casuale, deve esserci collegato un evento del passato. Eccolo, allora, davanti quella tazza a intingere e sorseggiare di nuovo, più volte, senza venirne a capo. Marcel sa che forzare il ricordo non lo porterà lontano, forse dovrà tornare ad abbandonarsi al grigiore di quella giornata senza poter gustare appieno di quella sensazione ...
Non è così! Di nuovo la sensazione ha la meglio. Ed ecco che i sensi riportano a galla, proprio mentre lo stato di coscienza si affievolisce, i fotogrammi del passato. Torna Combray, l'infanzia del narratore, la zia Leonie e le focaccine che spesso Marcel intingeva nel tè della zia, nelle belle giornate domenicali in visita da lei.

Così la memoria passa per quella tazza di tè e per il palato del narratore, un po' come accade anche a noi, di richiamare, emozionati, avvenimenti ormai del tutto sopiti, anche noi magari davanti ad una buona tazza di tè.



Infine, ecco la pagina di cui abbiamo chiacchierato un po':


Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l'amore, colmandomi in un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?

Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. E' tempo ch'io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io sono incapace d'interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per una spiegazione decisiva. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità.
Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l'animo nostro si sente sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce.
E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto, che non portava con sé alcuna prova logica, ma l'evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarvi a farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che fugge. E perché niente spezzi l'impeto con cui tenterà di riafferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo l'udito e l'attenzione dai rumori della stanza accanto
. Ma, sentendo come l'animo mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d'un tentativo supremo. Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il vuoto; di nuovo gli metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse come disancorata, a una grande profondità, non so che sia, ma sale adagio adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze traversate.

Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev'essere l'immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l'inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma,
né chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratti.
Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l'attimo antico che l'attrazione d'un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non so. Adesso non sento più nulla, s'è fermato, è ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, m'ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica.
E ad un tratto il ricordo m'è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «maddalena» che la domenica mattina a Combray ( giacché quel giorno non uscivo prima della messa ), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio.

La vista della focaccia, prima d'assaggiarla, non m'aveva ricordato niente; forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era disgregato; le forme - anche quella della conchiglietta di pasta - così grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota - erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto la forza d'espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma, quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l'immenso edificio del ricordo.

E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di " maddalena " inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti,, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.

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