lunedì 13 febbraio 2012

Versi sull'amore



E così, anche quest'anno, il Cupido innamorato è pronto con il suo arco a fare strage di cuori! Speriamo che "azzecchi" le direzioni! Più che altro speriamo che nella società che ha smarrito la grazia della parola, i sentimenti veri non si confondano con i pochi riti che ci rimangano, e soprattutto che i cerimoniali di una giornata “tutta dolce e cioccolata” non anneghino le piccole cose quotidiane che, forse, sono proprio quelle in cui vengono meglio i gesti disinteressati.
Intanto, messe da parte ulteriori riflessioni “barbose”, spegnete la luce, oppure accendete una lampada che illumini fiocamente, scegliete magari un pezzo musicale lento, che porti il vostro animo alla tranquillità, meglio se strumentale, sedete dove volete, non abbandonatevi troppo però, occorre uno spirito desto, ma sereno … quindi, quando volete, ascoltate le parole del grande poeta Gibran:

Allora Almitra disse: Parlaci dell’Amore.
Ed egli sollevo' la testa e guardo' il popolo, e una grande calma scese su di esso. E con gran voce egli disse:
Quando l’amore vi chiama, seguitelo,
Benche' le sue vie siano ardue e ripide.
E quando le sue ali vi avvolgono, abbandonatevi a lui,
Anche se la spada nascosta tra le sue penne puo' ferirvi.
E quando esso vi parla, credetegli,
Anche se la sua voce puo' infrangere I vostri sogni come il vento del nord quando devasta il vostro giardino.
Poiche' come l’amore v’incorona, cosi' vi crocifigge. E’ ugualmente pronto sia a farvi fiorire che a potarvi.
Egualmente ascende fino alla cima ad accarezzare i rami piu' teneri che tremolano al sole,
E discendera' fino alle vostre radici e le scuotera' la' dove piu' sono abbarbicate alla terra.
Come covoni di grano vi accoglie in se'.
Vi scuote per rendervi spogli.
Vi staccia per liberarvi delle reste.
Vi macina fino all’estrema bianchezza.
Vi impasta finche' non siate cedevoli;
Ed infine vi assegna al suo sacro fuoco perche' diventiate pane sacro per la mensa di Dio.
Tutte queste cose sapra' compiere l’amore per voi, di modo che possiate conoscere I segreti del vostro cuore e in questa conoscenza farvi frammento del cuore della Vita.
Ma se, nel vostro timore, voleste cercare dell’amore la pace ed il piacere,
Allora meglio per voi sarebbe coprire la vostra nudita' e uscir fuori dall’aia dell’amore,
Nel mondo senza stagioni, dove riderete, ma non tutto il vostro riso; e piangerete, ma non tutte le vostre lacrime.
L’amore non dona che se stesso e nulla prende se non da se stesso.
L’amore non possiede ne' vorrebbe essere posseduto;
Poiche' l’amore basta all’amore.
Quando amate non dovreste dire:”Dio e' nel mio cuore”, ma piuttosto:”Io sono nel cuore di Dio”.
E non pensate di poter condurre l’amore, poiche' e’ l’amore che, se vi trova degni condurra' voi.
L’amore non ha altro desiderio che di appagare se stesso.
Ma se amate e, necessariamente, ardete, siano questi I vostri desideri:
Dissolversi ed essere come un ruscello che scorre e canta la sua melodia alla notte.
Conoscere la pena che da' l’eccesso di tenerezza.
Essere feriti dalla stessa comprensione d’amore;
E sanguinare volentieri e con gioia.
Destarsi all’alba con un cuore alato e rendere grazie per un nuovo giorno d’amore;
Riposare nell’ora del meriggio e meditare sull’estasi che da' l’amore;
Rientrare a casa, la sera, pieni di gratitudine;
E addormentarsi con una preghiera per l’amata nel cuore e un canto di lode sulle labbra.

(Le parole riportate sono di Kahlil Gibran - Il Profeta)

lunedì 24 ottobre 2011

IL SAPORE DEL PASSATO IN UN TAZZA DI Tè



I nostri sensi giocano un ruolo importante. Non è solo questione di vedere, toccare, ascoltare, gustare e annusare, tutte funzioni peraltro di vitale importanza, ma il fatto è che con i nostri sensi viviamo non solo in senso strettamente biologico, ma con essi ci emozioniamo. Diciamo quasi che ogni nostro senso è un'emozione. Forse ce ne accorgiamo quando guardiamo qualcosa di molto gradevole, o di particolarmente sconvolgente. Il nostro vivere si potenzia infinitamente e noi ci emozioniamo, non importa che questa emozione faccia scaturire sensazioni positive o negative.

A questo punto quindi, siamo certi che i nostri occhi non servono solo per vedere quando attraversare la strada così come le nostre mani non sono fatte solo per una penna o per le mille faccende della giornata. Occhi, mani, naso, lingua, orecchi sono molto di più di semplici parti del nostro corpo. Di vitale importanza, così perfette e legate fra di loro, certo non potrebbero fare tutto da sole se non le guidasse lui: il cervello. Ma a volte anche il cervello si prende una pausa e oltre agli input precisi con cui comunica alle mani di muoversi o alla retina di ricevere le immagini che ci circondano, può lasciare spazio ad emozionanti scoperte …

E' un po' quello che è accaduto a Marcel, in quella sua ricerca del tempo perduto. Quella scoperta gustosa, o meglio quel ritrovamento così intimo e gioioso ha preso nuovamente vita nell'esperienza e poi su una delle pagine più famose della storia della letteratura europea. Stiamo parlando del celebre racconto della maddalena, di cui Proust racconta nel primo libro de “La Ricerca del tempo perduto”. Come tutti saprete, quel pomeriggio Marcel si era ritrovato davanti una tazza di tè, privo di qualsiasi speranza per il domani, anzi appesantito, proprio come il grigiore della giornata appena trascorsa. Nessuna prospettiva insomma! Sembra quasi di rivedere un po' tutti noi in questo personaggio scolorito e annoiato, a volte capita!

Eppure, in quel monotono grigiore, accade l'imprevisto. Non appena la fragranza della maddalena intrisa dell'aroma di tè entra in contatto con i sensi di Marcel, scatta qualcosa. E' il gusto del tè? Oppure quello della maddalena a generare nel narratore quel senso di piacere ancora del tutto immotivato?

Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa.

Quell'attimo delizioso, ancora del tutto privo di un fondamento, basta a Marcel per dissipare la nebbia della giornata, il presente pian piano perde i suoi contorni per lasciare spazio a una nuova sensazione, piena di calore e del tutto gioiosa. E' il momento sovrano in cui la mente, o meglio il cervello ha staccato la spina. Proprio quando fanno da padrone le emozioni e i sensi ci riconducono alle esperienze più serene. Potrebbe bastare soltanto questo a consolare la giornata dello scrittore, ma ora a quella mente che si è lasciata invadere dalle sensazioni, tocca districare i fili della memoria. Marcel si sforza, in effetti sa che quel piacere non può essere casuale, deve esserci collegato un evento del passato. Eccolo, allora, davanti quella tazza a intingere e sorseggiare di nuovo, più volte, senza venirne a capo. Marcel sa che forzare il ricordo non lo porterà lontano, forse dovrà tornare ad abbandonarsi al grigiore di quella giornata senza poter gustare appieno di quella sensazione ...
Non è così! Di nuovo la sensazione ha la meglio. Ed ecco che i sensi riportano a galla, proprio mentre lo stato di coscienza si affievolisce, i fotogrammi del passato. Torna Combray, l'infanzia del narratore, la zia Leonie e le focaccine che spesso Marcel intingeva nel tè della zia, nelle belle giornate domenicali in visita da lei.

Così la memoria passa per quella tazza di tè e per il palato del narratore, un po' come accade anche a noi, di richiamare, emozionati, avvenimenti ormai del tutto sopiti, anche noi magari davanti ad una buona tazza di tè.



Infine, ecco la pagina di cui abbiamo chiacchierato un po':


Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l'amore, colmandomi in un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?

Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. E' tempo ch'io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io sono incapace d'interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per una spiegazione decisiva. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità.
Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l'animo nostro si sente sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce.
E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto, che non portava con sé alcuna prova logica, ma l'evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarvi a farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che fugge. E perché niente spezzi l'impeto con cui tenterà di riafferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo l'udito e l'attenzione dai rumori della stanza accanto
. Ma, sentendo come l'animo mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d'un tentativo supremo. Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il vuoto; di nuovo gli metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse come disancorata, a una grande profondità, non so che sia, ma sale adagio adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze traversate.

Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev'essere l'immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l'inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma,
né chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratti.
Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l'attimo antico che l'attrazione d'un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso? Non so. Adesso non sento più nulla, s'è fermato, è ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre? Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, m'ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica.
E ad un tratto il ricordo m'è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «maddalena» che la domenica mattina a Combray ( giacché quel giorno non uscivo prima della messa ), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio.

La vista della focaccia, prima d'assaggiarla, non m'aveva ricordato niente; forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s'era disgregato; le forme - anche quella della conchiglietta di pasta - così grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota - erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto la forza d'espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma, quando niente sussiste d'un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l'odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l'immenso edificio del ricordo.

E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di " maddalena " inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello. E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d'acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti,, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.

domenica 2 ottobre 2011

IL GIARDINO DEI FITTI ARABESCHI


    I giardini dell'anima

Camminando per i mirabili giardini petrarcheschi quasi si ha l'impressione di immergersi in una fitta rete di arabeschi. Come tanti motivi geometrici e floreali, i dettagli dei luoghi poetici si ripetono con una precisione meticolosa, privati della loro caducità, per distribuirsi puri, sottratti al tempo che divora e frantuma. E' la grazia del verso petrarchesco, così equilibrato e mai dissonate, controllato fino all'estremo. La storia di Francesco e Laura è giocata tutta sul classicismo razionale del verso, che ripete, mediante smontaggi e combinazioni, immagini care al poeta e a tanta tradizione che l'ha preceduto. Per scendere un po' più sul pratico, i giardini, i boschi ameni e i luoghi dell'amore si configurano come realtà esterne rarefatte e impalpabili. La genericità della scelta poetica non ci consente di rappresentare in uno schizzo i luoghi memorabili dell'incontro con Laura. Al poeta non interessa descrivere gli spazi, per questo il laureto può essere sostituito da qualsiasi altro genere di pianta, e il ruscello può prendere il posto di un laghetto o di uno specchio d'acqua. L'impressione è sempre la stessa, quella di un luogo ameno, simile a tantissimi altri luoghi della tradizione. La stessa amata è un essere impalpabile e rarefatto. Così la lettura del Canzoniere petrarchesco sembra proporci situazioni molto simili fra di loro, quasi che il poeta torni sempre sui suoi passi, anche dopo aver tentato di riscuotersi. Non ha nulla di casuale questa scelta, perché la storia dell'amore petrarchesco coincide con quella dell'anima poetica. Non è la vicenda di Laura, ma quella di Francesco. Attraverso il racconto delle sofferenze e delle gioie, il cantore si apre a una confessione tutta umana. Mentre scorrono i versi, si libera il tormento del poeta che, legato ancora alla concezione dell'uomo medievale, cerca tuttavia la strada della conciliazione. Al dilemma amore terreno/amore divino, Francesco non riesce a dare una risposta, così il Canzoniere diventa il simbolo di un pellegrinaggio senza meta, di un errare senza posa, laddove la possibilità di un po' di pace è assicurata da quel verso poetico così limato e controllato.  

giovedì 23 giugno 2011

Lavandare

di Giovanni Pascoli


Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

Un aratro, solo, senza buoi, se ne sta abbandonato tra i vapori della nebbia.


E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene

E, dalla riva del fiume, vengono su, con grossi tonfi, il rumore dell'acqua mossa dalle lavandaie, e le voci dei loro canti.



Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l'aratro in mezzo alla maggese.



Il vento soffia, dagli alberi cadono le foglie, e tu non sei ancora tornato qui. Quando sei andato via sono rimasta così: come l'aratro abbandonato in mezzo al campo!



Tavolozza di colori, macchie di suoni e rumori, accostamenti di immagini e sensazioni: il campo grigio-nero diventa tutt'uno con la nebbia leggera nella prima strofa; i tonfi dell'acqua si sovrappongono alle melodie della lavandaie all'interno della seconda strofa.
L'aratro che se ne sta solo nel campo mezzo arato e mezzo dimenticato, assume i tratti umani. E' abbandonato come la donna della terza strofa. Li accosta una sottile similitudine, mentre l'analogia nascosta che li lega, parte dalla prima strofa per chiudersi ciclicamente nell'ultima. Solo, senza buoi è l'aratro, abbandonato tra i vapori della nebbia; sola, priva dell'amato o di un suo caro, è la donna, mentre tutto intorno soffia il vento e cadono le foglie. Che dietro la pregnante analogia dell'aratro si nasconda, insieme all'immagine della donna e all'idea della solitudine, anche la figura del poeta in attesa dell'impossibile ritorno dei suoi cari?  

giovedì 2 giugno 2011

Il tricolore fra le foglie di Corbezzolo



Verde, bianco e rosso. 
Verde come le foglie di cespugli bassi o di piccoli alberelli, bianco come le corolle di fiorellini penduli, rosso come la polpa dei frutti maturi. Pianta insolita il Corbezzolo! Suggestiva e ornamentale, fiorita e gravida di frutti nello stesso periodo. Il freddo non la spaventa, e così tra ottobre e novembre, fra le sue foglie verdi, spuntano grappoli bianchi di fiori. Il miracolo non è finito, perché, la natura ci fa lo scherzo, e lascia che alla fioritura si affianchino frutti rossi e polposi.


Verde, bianco e rosso, e forse, un bel giorno di autunno inoltrato, anche Pascoli, a passeggio per la vegetazione mediterranea, deve essere stato colpito dall'umile corbezzolo, magari proprio per la sua insolita fioritura e, siccome egli era il poeta delle piccole cose, sapeva come lasciare che il suo fanciullino dialogasse con la natura. Non gli sarà stato poi così difficile cantare questa poesia alla bella pianta:

O tu che, quando a un alito del cielo
i pruni e i bronchi aprono il boccio tutti,
tu no, già porti, dalla neve e il gelo
salvi, i tuoi frutti;
e ti dà gioia e ti dà forza al volo
verso la vita ciò che altrui le toglie,
ché metti i fiori quando ogni altro al
suolo
getta le foglie;
i bianchi fiori metti quando rosse
hai già le bacche, e ricominci eterno,
quasi per gli altri ma per te non fosse
l’ozio del verno;

Poi, man mano che il fanciullino del poeta continuava il suo dialogo, ecco che la pianta gli svelava la verità: verde, bianco e rosso, e il bell'alberello si fa italico:

o verde albero italico, il tuo maggio
è nella bruma: s’anche tutto muora,
tu il giovanile gonfalon selvaggio
spieghi alla bora:

Verde, bianco e rosso e la magia è compiuta. Le foglie del corbezzolo seguono i movimenti della striscia verde del nostro tricolore, i fiorellini bianchi si fanno un'unica macchia e i piccoli frutti rossastri si dispongono in un'unica fascia verticale. Verde, bianco e rosso e la natura ci racconta i simboli della nostra Repubblica.


A questo punto, proprio perché al poeta non sarebbe piaciuto lasciare sulla tela solo qualche spruzzatina viva di colore, il dialogo fra il Fanciullino poetante e la piccola pianticella si trasforma nel ricordo di un passato lontano, ora riapparso in immagini simili a quelle di un sogno. 
In questo modo, i versi successivi della poesia Al Corbezzolo, lasciano intravedere auguri interpreti di voli, stormi neri di corvi, profezie e cupi timori. Dalle acque si vedono giungere le navi nere con le poppe decorate di Chimere, e soprattutto un popolo fuggiasco, giunto presso il Tevere per volere divino.

il gonfalone che dal lido estrusco
inalberavi e per i monti enotri,
sui sacri fonti, onde gemea tra il musco
l’acqua negli otri,
mentre sul poggio i vecchi deiformi
stavano, immersi nel silenzio e torvi
guardando in cielo roteare stormi
neri di corvi.
Pendeva un grave gracidar su capi
d’auguri assòrti, e presso l’acque intenta
era al sussurro musico dell’api
qualche Carmenta;
ché allor chiamavi come ancor richiami,
alle tue rosse fragole ed ai bianchi
tuoi fiori, i corvi, a un tempo, e l’api:
sciami,
àlbatro, e branchi.
Gente raminga sorveniva, e guerra
era con loro; si sentian mugliare
corni di truce bufalo da terra,
conche dal mare
concave, piene d’iride e del vento
della fortuna. Al lido navi nere
volgean gli aplustri con d’opaco argento
grandi Chimere;
che avean portato al sacro fiume ignoto
un errabondo popolo nettunio
dalla città vanita su nel vuoto
d’un plenilunio.
Le donne, nuove a quei silvestri luoghi,
ora sciogliean le lunghe chiome e il
pianto
spesso intonato intorno ad alti roghi
lungo lo Xanto;

Ma che cosa sta raccontando Giovanni Pascoli?
Questi ultimi versi, piuttosto ardui, possono essere compresi, come lo stesso poeta ha indicato, con la lettura dell'XI libro dell'Eneide. Pascoli invitava proprio a soffermarsi sul poema e sulla morte dell'eroe Pallante. Il racconto virgiliano narra gli onori che Enea e i suoi rendono a Pallante, figlio del re Evandro. Enea, giunto in Italia per volere divino, per dare origine alla stirpe da cui nascerà il grande popolo romano, è accolto con favore dal re dei Latini, che gli promette la figlia Lavinia. Lavinia, già destinata a Turno, re dei Rutuli, viene rivendicata. 


Allo scoppio delle controversie, Enea si allea con una popolazione greca, giunta in Lazio dall'Arcadia. Il re di questo popolo è Evandro, e suo figlio Pallante. Entrambi divengono grandi alleati di Enea, ma Pallante, in un combattimento con Turno, cade mortalmente. L'XI libro dell'Eneide racconta  la celebrazione dell'eroe, posto delicatamente su di un feretro fatto di foglie di corbezzolo e di quercia.
Pascoli muove da qui, per poi intrecciare al mito la storia della pianta e ravvisarvi il simbolo precoce del nostro tricolore nazionale.
Ecco, infatti, come prosegue la poesia:

ed i lor maschi voi mietean di spada,
àlbatri verdi, e rami e ceree polle
tesseano a farne un fresco di rugiada
feretro molle,
su cui deporre un eroe morto, un fiore,
tra i fiori; e mille, eletti nelle squadre,
lo radduceano ad un buon re pastore,
vecchio, suo padre.

Avvertiamo l'eco dei celebri versi dell'Eneide. Come nel poema, anche qui l'onoranza funebre è preparata con struggente dolcezza. “[...] e manda mille uomini scelti/da tutta la schiera, che accompagnino le estreme onoranze/e condividano le lagrime del padre, esiguo conforto/d'un immenso dolore, ma dovuto ad un padre infelice./Altri, solleciti, intrecciano il graticcio d'un morbido/feretro con verghe di corbezzolo e rami di quercia,/e sopra ombreggiano il giaciglio con una copertura di fronde.”.


Nei versi virgiliani viene dato più spazio al dolore del padre Evandro, non appena gli sarà consegnato il feretro. In Pascoli, il dolore paterno è un poco più schermato, mentre si concede più risalto alla delicatezza delle immagini vegetali. Il feretro molle è reso più bello dalle fronde dell'Albatro o Corbezzolo, dai suoi fiori, fra i quali il più bello è il giovinetto Pallante. 
Infine, così come accade nell'XI libro dell'Eneide, anche qui il corpo dell'eroe viene ricondotto al padre. Il corpo esanime giunge nella città di Pallante o Pallanteo. Al suo passaggio nulla rimane immobile, gli animali partecipano all'evento, ululano i cani, e l'aquila, che appare in cielo, si rende messaggera dell'evento luttuoso.

Ed ecco, ai colli giunsero sul grande
Tevere, e il loro calpestìo vicino
fugò cignali che frangean le ghiande
su l’Aventino;
ed ululò dal Pallantèo la coppia
dei fidi cani, a piè della capanna
regia, coperta il culmine di stoppia
bruna e di canna;
e il regio armento sparso tra i cespugli
d’erbe palustri col suo fulvo toro
subitamente risalia con mugli
lunghi dal Foro;
e là, sul monte cui temean le genti
per lampi e voci e per auguste larve,
alta una nera, ad esplorar gli eventi,
aquila apparve.

Persino le mucche si volgono a guardare il giovinetto:

Volgean la testa al feretro le vacche,
verde, che al morto su la fronte i fiocchi
ponea dei fiori candidi, e le bacche
rosse su gli occhi.

Verde, bianco e rosso:

Il tricolore!… E il vecchio Fauno irsuto
del Palatino lo chiamava a nome,
alto piangendo, il primo eroe caduto
delle tre Rome.

Un climax ascendente la conclusione della lirica! La delicatezza delle fronde verdi del molle feretro, l'intreccio dei fiori bianchi che cingono la fronte di Pallante a mo' di corona e i frutti rossi che gli chiudono gli occhi, diventano il nostro tricolore nazionale, bagnato del sangue del suo primo eroe: Pallante. Poco importa che sia mito o realtà!



domenica 22 maggio 2011

Ritratti

La Monaca di Monza: il caso di una predestinazione - Parte I


Predestinazione, una parola che potrebbe destare un certo disagio. Sapere di essere predestinati a qualcosa, in un certo senso, ci spiazza, sia che si tratti di un destino felice che di una sorte meno piacevole. Ma il fatto è che quando parliamo di predestinazione immediatamente ci sorge nella mente un'altra idea, quella della nostra personale libertà di scelta. Con l'essere predestinati si finisce per non conoscerla affatto questa libertà.
Ora questo discorso potrebbe avere veramente poco a che fare con il destino della figura di cui chiacchiereremo a breve, tuttavia trovandomi a sfogliare, dopo tanto tempo, le pagine che raccontano la sua misera storia, mi è venuto in mente questo riferimento, giacché la poveretta, perché di una donna stiamo per parlare, forse non sapeva neppure che cosa significasse libertà. Senza chiederci più di tanto quale sia il valore da attribuire alla parola libertà, che poi è molto più di una semplice parola o di un concetto, entriamo nel merito.


Quando si parla della Monaca di Monza, conosciuta anche con il nome di Signora, si finisce per pensare ad un destino privato della libertà personale, mai accettato e tanto odiato. Gertrude, chiamata così dal padre per un motivo ben preciso, compare nel IX capitolo del celebre romanzo I Promessi Sposi. Un personaggio complesso, quello della Monaca di Monza, dinamico, di una coscienza tortuosa e tormentata, diremmo particolarmente moderna, e allo stesso tempo al limite della follia. Questa donna tanto celebre non è un semplice carattere ma, per dirla con una metafora, è un personaggio a tre dimensioni.
Dicevamo che la Monaca di Monza fa la sua comparsa nel IX capitolo del romanzo, dopo che Lucia e Agnese salutano Renzo. L'ingarbugliata situazione richiede un piano ben preciso e una certa prudenza, ecco perché i tre fuggiaschi, vittime della perfidia di Don Rodrigo, seguono i consigli dell'amato Padre Cristoforo; recarsi a Monza e da lì separarsi, Renzo per Milano, perché le tracce vanno confuse, Agnese e Lucia presso il convento dei cappuccini.
Così le due donne giungono dal padre guardiano il quale, presa visione della lettera informativa scritta da Padre Cristoforo, decide di prestare il suo aiuto alle poverette. Dopo qualche minuto di riflessione, il religioso decide da chi bisognerà recarsi, perché per casi simili a quello di Lucia, c'è soltanto una persona a cui rivolgersi: la Signora.
Chi sarà mai questa Signora? Nella finzione del romanzo le due povere donne se lo saranno certamente domandato. Qualche prima delucidazione ci arriva dalla spiegazione del padre guardiano che, lungo la strada, ne parla in modo tutto singolare. La Signora è una monaca. Così risponde il frate alle due, ma una monaca diversa dalle altre, è appunto la Signora. Signora per nascita, per famiglia e per le origini del padre; un nobile potentissimo a Milano, di antica famiglia spagnola, temuto anche a Monza. Per questa ragione la Monaca di Monza può fare il bello e il cattivo tempo lì nel monastero, sebbene non sia né la badessa né la priora. Se così stanno le cose, come non rivolgersi a costei. Certamente una donna molto potente, ma già da queste battute intuiamo che dietro può esserci qualcosa di più. Quell'essere non come tutte le altre monache è senz'altro un'allusione al suo alto lignaggio, infatti l'espressione è inserita proprio nel discorso sulle origini della famiglia, ma il vero significato si chiarisce più avanti.

Il padre guardiano incontra prima personalmente la Monaca, infine torna con notizie positive: le due donne possono essere ricevute. Ma non si poteva certo accedere al parlatorio senza che le due fossero avvertite, bisognava che rispondessero soltanto se interpellate, al resto avrebbe pensato il padre guardiano: “quando non siete interrogate, lasciate fare a me”. Che avranno pensato di quelle raccomandazioni Agnese e Lucia? Probabilmente nulla, ci erano avezze. Gli illetterati devono sempre lasciar fare alle persone più competenti, soprattutto se chi si deve incontrare è una persona molto potente, e quella Signora doveva certamente esserlo, anzi le due ringraziavano il cielo che qualcuno si scomodasse a prestar loro aiuto.

L'aspetto della Signora


Quando il padre guardiano introduce Lucia e Agnese nel parlatorio, agli occhi di Lucia appare soltanto una stanza vuota. Dove sarà mai quella monaca?
La donna è nascosta, diremmo quasi confinata in un angolo, in realtà la sua collocazione spaziale è soltanto un modo con cui accrescere l'importanza e l'austerità della figura, in un certo senso giocata per incutere timore. Finalmente Lucia si accorge di lei, è in piedi dietro due grate molto spesse, secondo la regola dei monasteri. A questo punto Manzoni inizia uno dei ritratti più famosi del suo romanzo:

Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un'impressione di bellezza, ma d'una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d'inferiore bianchezza; un'altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d'un nero saio.

Un ritratto perfetto quello della monaca, indugia sul più piccolo dettaglio, dato che ogni particolare non è frutto del caso né della consuetudine dell'abito monacale.
Aveva forse venticinque anni, il ritrattista non ne è certo, ma ciò che colpisce è l'aspetto. La bellezza della Monaca ha qualcosa di negativo. Manzoni utilizza l'aggettivo sfiorita, richiamando una similitudine floreale. Bella e sfiorita, come una rosa che appassisce, il cui profumo intenso è destinato a svanire. E non solo, la bellezza della Signora è scomposta. Una impressione di disordine e di sconvolgimento pervade la fisionomia della donna, come subito dimostra il riferimento al velo che cade alquanto discosto dal viso. Un piccolo dettaglio che si chiarisce a poco a poco, man mano che Manzoni ci svela le pieghe dell'animo. Il ritratto prosegue, sulla dominante di due colori, il bianco della fronte e del velo che copre lo scollo e il nero del velo e del saio, tipici dell'ordine benedettino.
A questo punto il ritratto si fa indagine psicologica. Manzoni intreccia le due sfere, quella esteriore e quella interiore. Ogni elemento estetico e comportamentale è il riflesso dello spazio dell'anima.

Ma quella fronte si raggrinziva spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri anch'essi, i fissavano talora in viso alle persone, con un'investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbero argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d'un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d'un pensiero nascosto, d'una preoccupazione familiare all'animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le labbra, quantunque appena tinte d'un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d'espressione e di mistero.

La sensazione di disordine continua a permanere, ora anche nei singoli atti e movimenti della donna. La fronte si raggrinzisce, come a causa di spasmi dolorosi; gli occhi e le labbra si muovono repentinamente, come a voler nascondere un segreto o il tormento interiore. Da questo momento in poi, il legame fra atti, movimenti, gestualità e sensazioni interiori si fa più stringente.
Comunemente si è soliti dire, con una metafora troppo comune, che gli occhi sono lo specchio dell'anima, ma in questa sede non c'è frase più adatta. Così i movimenti inarrestabili degli occhi, così come gli sguardi persi nel vuoto, lasciano parlare un'anima straziata e tormentata.
Quegli occhi rivelano una psicologia complessa, a tratti malata, malata d'amore. 


I moti dell'animo, così instabili e fragili, si riflettono nello sguardo degli occhi, che ne sono l'indizio più vivo. Talora i suoi occhi si fanno superbi come se a dimostrare una superiorità certa di nascita e di lignaggio. A volte quella superbia si muta in cattiveria e rivela l'odio e il desiderio di vendetta per quella libertà personale che le viene negata sin dal seno materno. Così la Signora tradisce, di tanto in tanto, il desiderio struggente d'amore, che le è stato negato da chi avrebbe dovuto dargliene naturalmente, mentre lo specchio dell'anima lascia intravedere un segreto mostruoso, che soltanto lei conosce e che costituisce un'ombra costante.
Il ritratto prosegue e termina così:

La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c'era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura scolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento.

Infine il disordine interiore si riflette anche negli atti e nei movimenti più naturali. Dice lo scrittore che gli atteggiamenti della monaca hanno qualcosa di singolare, i suoi movimenti sono risoluti, diremmo maldestri, per essere quelli di una donna, e soprattutto di una suora. Si consideri che nella regola delle religiose erano contemplate le regole del contegno e del decoro esteriore. E a questo decoro la monaca sembra contravvenire, per via di quella ciocca nera di capelli lasciata fuori dal velo. Segno di distrazione o di disprezzo? E la vita tenuta così aderente? Una scelta di vanità femminile, di vezzo o di studiata e perversa ostentazione? Anche questa poteva essere semplicemente una svista?

martedì 10 maggio 2011

A spasso per alcuni dei giardini più importanti della nostra letteratura


i giardini dell'anima

C'è stata una volta in cui un uomo ha temuto di non trovare più la via d'uscita. Tutto intorno l'atmosfera così densa gli faceva perdere la speranza di poter tornare a camminare con il cuore leggero. I suoi occhi vedevano soltanto sterpi e rovi; a poco a poco lo sguardo si perdeva, e il cuore diventava sempre più grave. Ed è stato così che nel mezzo della via della vita, attanagliato dalle spire di quella selva, Dante ha creduto di smarrirsi per sempre.
Selva vera o metaforica che fosse, non avrebbe avuto troppo senso entrarvi senza trovare una via d'uscita, giacché l'esperienza di maturazione che attendeva Dante trovava il suo punto di partenza proprio in quella selva nodosa e oscura, nella quale il poeta dice di aver trovato anche del bene. Così, mentre le tre fiere stavano per ricacciare il poveretto nella selva, ecco che si apre la speranza. Una guida, l'amato Virgilio tende a Dante il suo braccio e si offre di mostrargli la via.

Il viaggio fatto di cadute, umiliazioni, dubbi, ma anche di stupore e gioia mira ad un'altra selva. Per arrivarvi è necessario un percorso di crescita e di purificazione. In effetti, il cammino dantesco è tutto compreso fra questi due limiti: la selva del peccato e dello smarrimento e quella della luce e della certezza. Locus horridus il primo, locus amoenus il secondo. I due margini dello spazio dantesco sono l'emblema di due poli, il primo negativo, il secondo positivo, in un certo senso immagine della condizione interiore dello stesso Dante. Così il viluppo oscuro dell'anima si oggettiva e materializza nella selva selvaggia, aspra e forte, mentre, un po' più tardi, l'anima lavata e purificata si unirà al canto degli uccelli della selva del Paradiso.


Ventottesimo canto del Purgatorio, Dante entra in un'altra selva. Poche parole, così poche che nel giro di qualche terzina il giardino dell'Eden appare davanti ai nostri occhi e noi possiamo entrare nella foresta spessa e viva. Ben altra cosa questa selva, un'atmosfera luminosa e ricca ne accompagna l'idea. Spessa e si direbbe fittissima di varietà vegetali, ma soprattutto viva. L'altra foresta, molto simile a quella aggrovigliata dei suicidi, era morta. Il cuore del viandante era appesantito, e i suoi passi rischiavano di inciampare. Ora il viaggiatore è libero e, a cuore sollevato, desidera esplorare la selva, per questo prende la campagna lento lento, su per lo suol che d'ogne parte auliva. La foresta è viva non solo perché è ricca di esseri viventi, ma perché ogni sua parte esala vita. Non c'è nessun elemento neutro nel giardino dell'Eden, persino il suolo sembra respirare, emanando le sue fragranze. Dante entra a passo lento, come a voler suggere il più piccolo sapore della selva-giardino, entra silenzioso, senza alcuna fretta, sebbene sia ansioso di scoprire lo spettacolo.
Ormai purificato, dopo un lungo viaggio, dopo una salita faticosissima, conscio dei propri errori, e padrone del suo libero arbitrio, può entrare nel luogo dell'antica bellezza. Passeggia senza timore, non come quando nella selva aspra e forte, aveva rischiato di rimanere schiacciato dalla violenza delle fiere feroci.
Qui tutto è armonia; anche il vento, che muove i rami, si unisce con un tocco delicato alle trame musicali dei piccoli uccellini: è il concerto della pace, cantano i piccoli animaletti, fa da accompagnamento l'aura dolce, senza mutamento. Nel giro di sei terzine è stato dischiuso, per noi, il mondo della selva, con pennellate brevissime, che spesso si intrecciano, trapassano e si abbracciano in un solo verso. Così l'intero ci è dato per metonimia, e i rami e le foglie sono soltanto le parti di una foresta sterminata e ricchissima.
Il concerto della natura è quello dell'anima ritrovata che può vedere distintamente la limpidezza delle acque del fiume che scorre sullo smalto d'erba; un'acqua più pura di qualsiasi sorgente mai vista, sempre costante, perché immutata è la fonte che l'alimenta.


E infine nella selva compare Matelda, una donna soletta che si gia/e cantando e scegliendo fior da fiore/ond'era pinta tutta la sua via. Con l'apparizione di questa donna il quadro sembra completo. La figura dell'armonia, allegoria dell'antica bellezza smarrita a causa della colpa, è prima di tutto la conferma della perfezione della selva beata.